Real, Atletico e il libro di Pippo Russo

Sabato 24 maggio a Lisbona le due squadre di Madrid si giocheranno la Champions. Una, il Real, rappresenta il potere dai tempi di Franco, soldi, relazioni giuste, giocatori che fanno circolare denaro quanto una multinazionale. L’altra, l’Atletico, è una parente povera, pochi trofei e molte lacrime, un allenatore d’assalto (Simeone) che quando giocava mangiava le cartilagini delle zampe di maiale pur di guarire in fretta dagli infortuni, la maglia a righe biancorosse che in campo li fa somigliare a vecchi materassi, col-choneros appunto, il soprannome di una vita. Apparentemente è l’ennesima sfida di Davide a Golia che alimenta l’epica del calcio, un mondo in cui il talento, la ricchezza, persino il fato, sono succubi ai capricci di un pallone che rotola. Bello. Peccato che sia una verità per anime semplici e che la realtà sia un’altra cosa. «L’Atletico è nelle mani dei fondi di investimento internazionali, quella economia grigia, parallela che ormai gestisce il calcio. All’Atletico i giocatori sono sottratti al controllo del club e possono essere ceduti altrove per volere degli investitori, non dei dirigenti: un caso per niente isolato, anzi». A spiegarlo è Pippo Russo che su questa “economia grigia, parallela” ha scritto un libro (“Gol di rapina Il lato oscuro del calcio globale” edizioni Clichy). Dice: «Il sommerso del calcio mette a dura prova la passione. Io, ormai non riesco più neanche a vedere una partita in tv…». Un nemico, oscuro ma non troppo, travestito da evoluzione di un mondo che negli ultimi anni ha vissuto un’irrefrenabile crescita di passione (e interessi). «Quando parlo di fondi di investimento — spiega ancora Pippo Russo — mi riferisco a cartelli di agenti, privati in compartecipazione che gestiscono enormi capitali. Niente di tecnicamente illecito, ma una filosofia lontana dallo spirito dei club che si affrontano per garantirsi la supremazia sportiva. In questo caso il discorso è diverso e l’obiettivo è far fruttare i soldi dentroil calcio per poi portarli fuoridal calcio». Meccanismo che moltiplica il denaro fregandosene della passione, dell’identità del tifoso. «I giocatori devono cambiare spesso squadra: un campione più lo cedi e più frutta, ecco la ricetta». Dunque, un plotone di globetrotters milionari e addio ai calciatori bandiera, quelli che restavano una vita nella stessa squadra a costo di vincere e guadagnare meno. «Dobbiamo abituarci a considerare il singolo club come un nastro di passaggio», dice amaro Russo. Che indica nel Doyen Sports uno dei fondi più potenti. «Il Doyen Group ha sede legale a Istanbul, braccio finanziario a Londra, divisione sportiva a Malta e una nuova sede in Brasile». Guarda caso, la sede dei prossimi Mondiali. Niente male per chi ancora soffre, crede, prega aggrappato a una maglia. Nel calcio raccontato (smascherato) da Pippo Russo non c’è spazio per le leggende alla Soriano, il fango nell’area di rigore e i dribbling di brasiliani con una gamba più corta dell’altra o argentini con la mano di Dio. Oggi tutto è cambiato. In Sud America, Germania, Spagna, Inghilterra. Gli angeli dalla faccia sporca hanno lasciato il posto a uomini da copertina col tatuaggio facile e la valigia sempre pronta «manovrati come pedine da oligarchi ex sovietici o magnati turchi, banche nazionali o internazionali, agenti di calciatori capaci di trasformarsi in broker d’affari a 360 gradi». Intrighi, manovre spregiudicate, incroci e vortici di relazioni e soldi che finiscono per arricchire sempre gli stessi. E in Italia? Qui dove gli stadi sono vuoti e gli ultrà sono padroni di curve e finali di coppa, forse siamo diventati talmente marginali da non attirare l’economia grigia delle capitali del pallone. «Beh — dice Pippo Russo — l’Italia è sì una potenza decaduta, ma proprio per questo rappresenta un brand appetibile». Questione di tempo. «Giusto. Oggi nel nostro Paese puoi comprare grandi squadre a prezzi più bassi e il processo è già iniziato, anche se nessuno vuole accorgersene. Semmai il processo è stato rallentato dal tipo di capitalismo nostrano, un capitalismo poco maturo, guidato solo da gruppi familiari. Ma presto assisteremo a ciò che altrove è già accaduto, non c’è dubbio». In fondo, però, Russo una speranza la lascia intravedere: «L’antidoto c’è, e sta in tutte le forme di partecipazione dei tifosi. Non tanto l’azionariato popolare, che a Barcellona non ha evitato scandali e debiti, ma altre forme, come la possibilità per i tifosi di entrare nei consigli di amministrazione con diritti speciali, potere di veto su marchio, elementi di bilancio, cessione dei titoli sportivi». Peccato che le uniche esperienze del genere al momento riguardano piccole squadre («Taranto, Ancona») visto che «più il club è forte e più i tifosi perdono il controllo». Quasi una sentenza. Da incassare in attesa di guardarsi la prossima partita. (fonte: Gianluca Monastra – la Repubblica.it)

 

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