Il 52%di Garofalo a Ebro Foods: critiche e timori

“Quando un marchio così importante va via dalla Campania, se ne va un pezzo di futuro della nostra regione. Ci auguriamo che Garofalo mantenga saldo il legame con il territorio, continuando a sposare la filosofia di qualità che ha fatto della pasta di Gragnano un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo”. Lo dichiara, in una nota, il presidente di Coldiretti Campania, Gennarino Masiello, commentando la cessione del 52 per cento del capitale Garofalo a Ebro Foods, il gruppo alimentare iberico presieduto da Antonio Hernández Callejas, per la cifra di  62,5 milioni di euro. “Garofalo è un marchio storico campano – continua la nota di Coldiretti – un patrimonio della regione, perché da sempre esprime importanti valori produttivi, economici e di identità culturale. L’auspicio è che si continui a produrre una pasta esclusivamente con materie prime italiane e confezionate nel nostro paese. Se oggi Gragnano è un polo della pasta all’avanguardia lo deve soprattutto alla forte identità con il territorio”. Coldiretti Campania, infine, si augura che il passaggio di proprietà non si traduca, come accaduto per altri prestigiosi marchi italiani dell’agroalimentare, “in svuotamento finanziario delle società, delocalizzazione della produzione e perdita di occupazione”. La Confederazione italiana agricoltori che inserisce Garofalo nell’elenco dei marchi persi dall’Italia ha così commentato: . «Da Gancia a Parmalat, da Buitoni a Galbani, da Bertolli a Sasso, sono anni che assistiamo allo ‘scippo’ di marchi storici da parte di compagnie straniere, il più delle volte spagnole e francesi.Continuiamo a vedere i nostri brand che cambiano nazionalità». Un settore quello dell’agroalimentare che vale il 17 per cento del Pil, fattura 250 miliardi di euro e traina l’export nazionale con 34 miliardi di vendite oltreconfine. Non a caso Garofalo è presente in 60 paesi e leader nel settore ‘premium’ in Svezia, Francia, Svizzera, Olanda e Portogallo.

 

“La storia della mia famiglia” il racconto di Mario Garofalo su Il Corriere della Sera

Primi del '900: pasta stesa ad essiccare per le vie di Gragnano

Quella che vi racconto è la storia della mia famiglia. Alfonso Garofalo non era per nulla slanciato, aveva spalle larghissime sotto i baffi a manubrio e la «paglietta» bassa che usava come cappello. Aveva sposato l’ultima donna di una famiglia di armatori, i Ciampa, pur di esportare i suoi maccheroni da Gragnano all’America, e non avrebbe consentito a nessuno di mettergli i bastoni tra le ruote. Quando venne a sapere dello sciopero degli scaricatori di porto decise di affrontare personalmente il capo della protesta, che era anche il guappo di Castellammare di Stabia, detto Michele ‘a Papone (il Vapore ) per la sua consuetudine con le navi dell’epoca. «Mi devi dare i soldi», disse quello. «Io ti do questo», rispose don Alfonso, e con un pugno dal basso verso l’alto lo buttò in mare. Michele ‘a Papone risalì tutto bagnato e non lo minacciò di morte. «Servo vostro», promise. E così fu, diventò il suo autista. Ora che i maccheroni dei Garofalo sono finiti nelle mani di una multinazionale spagnola, la Ebro Foods , le storie colorite di mio padre Carlo, figlio di Alberto, figlio di Alfonso, possono tornare utili per capire quanto la pasta di Gragnano sia intrecciata con la storia del nostro Paese. Alfonso era un tipo sveglio. Nel 1873 aveva ereditato con il fratello Lucio un piccolo pastificio dal padre Nunziante e ne aveva fatto una grande azienda, trasformando Gragnano, allora paesino sottosviluppato dell’entroterra napoletano, nella capitale della pasta. Aveva costruito un nuovo stabilimento, uno dei primi edifici italiani in cemento armato, dove gli spaghetti si essiccavano in un luogo protetto e non più in strada. Aveva creato una società per azioni, quando in Italia ce n’erano pochissime. Aveva ottenuto il permesso di stampare sulla carta azzurra dei pacchi la scritta: «Fornitore ufficiale della Real Casa». Era anche diventato sindaco, facendosi aiutare dal parroco Malafronte che in piena omelia, confondendo il sacro col profano, gridava dal pulpito: « Uommene di Gragnano, avete mangiato quelle zeppole fritte nell’olio fetente? Votate sindaco democratico-liberale Alfonso Garofalo. Salve Cristo, vessillo di gloria…». Con i soldi che aveva accumulato comprò la tenuta più bella di Napoli, villa Lucia, che era appartenuta a re Ferdinando di Borbone e occupava un bel pezzo della collina del Vomero. Edoardo Scarfoglio, che si era sentito rifiutare l’acquisto di azioni del Mattino , si vendicò con un titolo canzonatorio sul passaggio dell’immobile «da re Nasone a re Maccarone». E lui, Alfonso, se la prese moltissimo. Non era colto, ma voleva riscattarsi. Ospitò un artista pazzo che allora nessuno conosceva, Vincenzo Gemito, che ritrasse lui e la Ciampa in due busti di bronzo. E mandò i figli a studiare in un collegio svizzero, perché dovevano studiare come si doveva. E così fu. Tornarono educati ma deboli, viziati, senza la grinta del padre. Quando Alfonso morì, loro prima investirono su Wall Street alla vigilia del crac del 1929, poi cominciarono a litigare e pagarono la lontananza dal fascismo. L’azienda nel giro di pochi anni svanì. Ne era rimasto in piedi solo un pezzo piccolo, quello del fratello di Alfonso, Lucio. Un lumicino, che fu riacceso molto tempo dopo, negli anni ‘90, da un abilissimo imprenditore estraneo alla famiglia, Massimo Menna. Così la pasta ci è sfuggita tre volte: prima uscendo dal ramo di Alfonso e passando a quello di Lucio, poi abbandonando la famiglia, infine dicendo addio all’Italia per andare in Spagna.

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