Mondiali: la sfida tra i brand Adidas e Nike

Le magliette sono un simbolo nazionale e insieme anche un marchio, fortissimo, sovranazionale. Mai come in Brasile la sfida fra i brand che sostengono il calcio mondiale, Adidas e Nike, le due nazionali delle forniture, è stata così evidente, così sotto gli occhi di tutti. Le pubblicità della tv che trasmette le dirette in Brasile (Sportv), fra una partita e l’altra, nell’attesa dei collegamenti, e persino a notte fonda, sono gallerie di volti che per contratto testimoniano l’efficacia del prodotto che indossano. Soldi, soldi, soldi. Soldi che mandano avanti il sistema, soldi che non basterebbero i depositi di Zio Paperone, soldi che servono a produrre scarpe, di alta e bassa qualità, per tutti, maglie, ciabatte, tute, borse, giubbotti, palloni, a creare “training camp”, a incoraggiare gruppi di allenamento, a foraggiare atleti provenienti da paesi disagiati e a pagarne preparazione sportiva e studi. Il calcio è solo una parte di questo gigantesco mercato all’aperto che realizza prodotti finiti soprattutto nei paesi in cui la forza lavoro non costa quasi nulla. Ovviamente non è stato sempre così. E’ stata l’Adidas 68 anni fa a intuire che si poteva cominciare a pagare un atleta per indossare quel preciso prodotto, creando una nuova specie di eroe, l’eroe da vetrina (“heroes for sale”): l’idea venne al figlio di Adolf  Dassler, Horst, che decise che poteva farsi dare qualche soldo da alcuni atleti in partenza per le Olimpiadi di Melbourne. Aperta, la porta non si è più chiusa. Il “buco” è diventato sempre più largo. Il rapporti economici fra stilista e campione sono diventati sempre più stretti e convenienti. Dalle persone sono passati alle strutture. Hanno cominciato a sponsorizzare squadre perché le loro magliette avessero le “tre strisce”, convincere enti e organizzazioni (i campionati nazionali, i Mondiali, gli Europei, la Coppa d’Africa, la Champions League, l’Uefa, la Fifa e tutte le altre monarchie) a usare i propri palloni. Nel 1970 l’Adidas era talmente potente che un certo Phil Knight, 32enne commerciante di scarpe da montagna dell’Oregon, incuriosito e forse anche un po’ invidioso, decise che doveva trovare un modo per ostacolare e, possibilmente, affiancare il gruppo tedesco. Pareva una pazzia. A 76 anni Phil Knight è ancora il presidente della Nike, non personalmente ma è ancora lui a mettere le scarpe a Cristiano Ronaldo. Dopo anni di rincorsa, adesso la Nike è la più grande compagnia di “sportswear” del mondo, con un fatturato di 25 miliardi di dollari all’anno con cui occupa il 17% del mercato globale. Lo deve anche al nuovo modo di concepire la pubblicità, ha creato una cultura dell'”advertising” e della promozione degli eventi. A volte è stata così diversa nell’approccio col pubblico che pareva quasi che gli altri gruppi facessero un mestiere diverso. L’Adidas comunque è lì, poco dietro: 20 miliardi di dollari e il 12% del mercato. Nel calcio le due “squadre” fagocitano il 70% del mercato. Tanto per fare qualche numero: delle 32 squadre di questo mondiale, 10 vestono Nike (Brasile, Stati Uniti, Grecia, Croazia, Inghilterra. Portogallo, Corea del Sud, Australia, Francia e Olanda) e 9 Adidas (Germania, Spagna, Colombia, Bosnia-Erzegovina, Argentina, Giappone, Russia, Messico, Nigeria. L’Adidas in compenso, da anni, esattamente dal 1970, è il referente ufficiale della Fifa per quanto concerne palloni e ammennicoli vari e da poco ha esteso questo rapporto sino al 2030: “Ci costa 70 milioni ogni quattro anni, questo rapporto”. Ma i guadagni sono clamorosamente più alti. La Puma si sta facendo strada con 8 nazionali (Italia, Svizzera, Costa d’Avorio, Algeria, Camerun, Ghana, Uruguay, Cile). Ma attenti: è il marchio fondato da Rudolf Dassler, il fratello di Adolf “Adi” Dassler, il leggendario patron dell’Adidas (e ha Bolt in squadra). Alle altre le briciole (che comunque non sono da buttare). La Joma veste l’Honduras, l’Uhlsport l’Iran, la Lotto la Costa Rica, la Marathon l’Ecuador, e la Burrda Sport il Belgio. Sgomitano altri brand: i cinesi della Uniqlo (Djokovic) e della Li-ning, gli americani della Under Armour. Calcio per loro significa che 300 milioni di persone giocano a calcio regolarmente e un miliardo di persone lo guarda in tv. E il mercato è in netta espansione. Col calcio la Nike, nel 2013, ha portato a casa quasi due miliardi di dollari, l’Adidas (anche se la stima non è ufficiale) quasi 2,5 miliardi. Ma secondo l’ad dell’Adidas Herbert Hainer “è stata una stagione fiacca”. Nel 2014 pensano di riuscire a portare a casa 3 miliardi di dollari, grazie anche ai Mondiali. E vorrebbero tornare avanti nel testa a testa con la Nike nel 2016, dopo gli Europei di Francia. Sono soprattutto le scarpe a lanciare messaggi (e palloni). L’Adidas continua a produrle nel suo centro logistico di Herzogenaurach, lo stesso da cui negli anni Venti partì il sogno di Adolf Dassler. Ormai si producono scarpe sul piede dei singoli campioni, esattamente come si producono racchette per i singoli tennisti. La scarpa di Ronaldo non andrà mai bene sui piedi e per le qualità tecniche di Messi, come la racchetta di Djokovic non funzionerebbe nelle mani di Nadal. E così hanno anche stilato delle tabelle. Da agosto 2013 a maggio 2014 sapete quale scarpino ha realizzato più gol sommando Liga, Premier, Bundesliga e Serie A? E’ stato l’Adidas F50: 761 reti. Capocannoniere delle scarpe. Segue il modello “top” della Nike, il Mercurial (740). Poi, via via, altre due scarpe Nike, l’HyperVenom, il CTR360, poi ancora il Predator dell’Adidas, l’evoSpeed della Puma, il Nike Tiempo, l’Adidas Nitrocharge, l’Adipure e l’evoPower Puma. Altri tempi quando da ragazzini si sognava di indossare la mitica Pantofola d’oro perché, si diceva, era la migliore scarpa per calciare il pallone che si stava imponendo allora: l’altrettanto leggendario Mikasa. Ma si giocava sulla pozzolana. Che ne sanno questi campioni. (fonte: la Repubblica)

 

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