Secondo una sentenza appena pronunciata dalla Corte di Giustizia Ue, un Paese membro può fissare legittimamente dei paletti e decidere di non concedere prestazioni sociali a un cittadino di un altro Paese Ue che si trasferisce a caccia di lavoro. L’assistenza potrà scattare solo dopo un periodo minimo di impiego e solo se la persona cerca attivamente un’altra occupazione. Si tratta di un precedente importantissimo per la mobilità interna all’Unione europea. La sentenza appena pronunciata dai giudici di Lussemburgo spiega che rifiutare sussidi a un cittadino dell’Ue, “il cui diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato membro ospitante è giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro”, non è contrario al principio della parità di trattamento.
A tale riguardo, in passato, ci sono state già pronunce simili. La Corte, infatti, dice che le prestazioni sociali sono “volte a garantire mezzi di sussistenza a persone non in grado di farvi fronte da sole e che sono oggetto di un finanziamento non contributivo mediante prelievo fiscale”. Quindi, sono qualificate come assistenza sociale. Per potervi accedere, allora, un cittadino Ue deve rispettare alcuni requisiti minimi, paletti che gli impediscono di percepire l’assistenza sempre e comunque. In pratica, in base alle direttive comunitarie, dopo aver lavorato per un periodo inferiore a un anno ed essersi fatto registrare in un ufficio di collocamento, conserverà lo status di lavoratore e il diritto di soggiorno (con relativa assistenza) per almeno sei mesi. Oltre quella data, potrà restare nel paese per cercare lavoro ma non avrà alcuna garanzia. Non potrà, ovviamente, essere allontanato dal paese. (fonte: Euractiv.it)