Italia e Spagna, meno spesa in ricerca e sviluppo

L’Italia sta perdendo una battaglia, a dispetto delle apparenze e delle statistiche, secondo le quali anche negli anni della grande crisi l’industria farmaceutica italiana ha retto alla competizione. L’Italia soccombe nel confronto con i principali paesi europei per capacità di attrarre investimenti per la produzione di farmaci biologici (ossia innovativi), resta in gara per quelli relativi ai farmaci di sintesi chimica (maturi). Ma la produzione dei farmaci tradizionali è molto più esposta alla concorrenza dei Paesi emergenti e dunque «il posizionamento dell’Italia come piattaforma produttiva nel contesto europeo sembra assai pericoloso nel medio termine ». Lo si legge nella ricerca «Future by Quality » elaborata da AT Kearney per Fondazione Zoé. Il rischio si materializza nei processi di fusione e ri-posizionamento in corso a livello internazionale per i grandi colossi, e che hanno avuto come effetto – tra le altre conseguenze – che per esempio il centro ricerche Sanofi a Milano è stato chiuso, quello Msd vicino a Roma è stato venduto, così come è avvenuto per quello Gsk a Verona e per quello Pfizer a Nerviano. Rispetto a Germania, Francia, Regno Unito, ma anche Belgio, l’Italia resta indietro: assieme alla Spagna, è il Paese che attira meno spesa in ricerca e sviluppo rispetto al proprio mercato in Europa. Casi come l’investimento di 70 milioni della multinazionale Eli Lilly, annunciata nei giorni scorsi per il sito di Sesto Fiorentino per produzioni biotech, sono eccezioni. Alla presentazione del dossier di AT Kearney, il viceministro allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, sostiene che «l’industria farmaceutica di qualità deve poter aggredire i mercati emergenti, mentre nel mercato interno il governo ha dato una stabilità rompendo il nesso tra spending review e tagli orizzontali se non retroattivi alla spesa farmaceutica. Gli strumenti con cui agire sono: una corretta metodologia Aifa di determinazione del prezzo dei farmaci, né ingiustificatamente bassi né con sovrarendite; per la Ricerca e Sviluppo il ricorso agli accordi di programma tra Mise e imprese su obiettivi concordati; l’accesso al credito di imposta e ai programmi comunitari tipo Horizon 2020». Tesi in qualche modo in linea con il pensiero di Elena Zambon, presidente del gruppo farmaceutico che porta il nome di famiglia. Premesso che secondo Zambon «le imprese da sole non ce la possono fare», e che «sui grandi progetti non è assolutamente possibile mollare», occorre «mobilitare investimenti portentosi, di sistema », per cui come in Francia o in Belgio «è indispensabile mettere attorno a un tavolo i rappresentanti dei ministeri, delle autorità regolatorie, delle università, delle imprese per definire le regole del gioco e a quale gioco ci candidiamo». Disegno complicato, nel paese delle duecento fabbriche e delle multinazionali tascabili familiari capaci finora di trovare al loro interno percorsi di sviluppo su scala mondiale. Zambon, per esempio, destina il 10% dei propri ricavi a ricerca e sviluppo, e vende all’estero l’80% dei propri prodotti. Ma le statistiche di comparto dicono che l’export di farmaci di sintesi chimica cresce del 14,7%, ossia oltre 4 volte il tasso delle esportazioni dei farmaci biologici (3,6%), tanto da rappresentare ormai il 91% del totale delle vendite all’estero, con una bilancia commerciale in continuo miglioramento (saldo positivo di 3,9 miliardi nel 2013). Al contrario, l’import di farmaci biologici cresce a un livello tale (8,4%), che la bilancia commerciale specifica è negativa e in costante peggioramento (-2,9 miliardi nel 2013). Come dire che l’Italia è esportatore netto e crescente dei farmaci più maturi e importatore netto e crescente dei farmaci più innovativi. Tant’è che il Rapporto elaborato per Fondazione Zoè definisce «il ruolo dell’Italia nel contesto europeo come piattaforma produttiva di farmaci maturi, mentre per quanto riguarda i più innovativi l’Italia non gioca alcun ruolo: un unicum nel Continente». Il che non toglie che le esportazioni bio-farmaceutiche valgono da sole all’incirca quanto l’insieme degli altri settori a alta tecnologia e che sono cresciute tra 2009 e 2012 a un tasso medio annuo del 12,3%, arrivando a rappresentare il 4,4% delle esportazioni totali italiane. (fonte: la Repubblica)

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