Cresce il numero delle medie imprese italiane che ottengono una parte del proprio fatturato oltre confine. La ricerca di GE Capital si concentra anche sul tema dell’internazionalizzazione. Ed evidenzia che, ormai, nel mid market del nostro Paese ,questo è un fenomeno che riguarda quattro imprese su cinque. Accordi commerciali, joint venture, licenze e franchising sono il veicolo preferito per andare all’estero. Anche se restano degli elementi sui cui lavorare: il nostro mercato, infatti, è ancora troppo orientato sull’Europa mentre, per migliorare il potenziale di espansione, bisognerebbe guardare anche altrove. “Le medie imprese italiane – spiega la ricerca – stimano che saranno i mercati non domestici i luoghi nei quali si manifesteranno i maggiori tassi di crescita”. Questa percezione coinvolge sia il mercato europeo (46% per il mid-market italiano, a fronte del 19% della Gran Bretagna, del 33% della Germania e del 25% della Francia), sia i mercati più lontani. Su questo secondo fronte, per le imprese italiane la percezione è più marcata (49%) rispetto a Gran Bretagna (41%) e Germania (40%) e quasi doppia rispetto alla Francia (28%). La debolezza della domanda interna, come avviene già da anni, impone alle nostre imprese di estendere le proprie strategie in modo sistematico in altri paesi. Anche se il quadro macroeconomico è stato segnato da importanti novità negli ultimi dodici mesi. La forte discesa del prezzo del petrolio ha ridotto significativamente la bolletta energetica italiana, con effetti positivi sui costi delle imprese e sui bilanci delle famiglie. Inoltre, la politica monetaria non tradizionale e molto espansiva introdotta dalla Bce nei mesi scorsi ha generato, da un lato, un sostanziale deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro stimolando l’export, e dall’altro ha ridotto sensibilmente il costo del finanziamento del debito pubblico. Tutti fenomeni che hanno dato un sostegno alla domanda interna anche se questa, comunque, rimane debole. Da qui deriva una vocazione delle medie imprese all’internazionalizzazione ormai consolidata. Più dell’80% delle imprese, infatti, realizza almeno una parte del proprio fatturato oltre confine, con una crescita del 4% rispetto allo scorso anno. Dice ancora l’analisi: “Per comprendere questo dato, è necessario approfondire i mercati di destinazione e le logiche sottese alla strategia di internazionalizzazione”. Partendo dal mercato europeo, questo può sempre più essere identificato come un mercato domestico allargato e non come un mercato estero vero e proprio, anche considerando il fatto che i principali mercati di destinazione sono Germania e Francia, seguiti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera e Spagna. Il 56% dei prodotti delle medie imprese è destinato all’Italia e questo è un indice di preoccupazione, “perché la domanda interna è debole e probabilmente tale resterà nel prossimo futuro”. All’interno di questo quadro, allora, il mid-market italiano continua ad essere alla ricerca di nuovi mercati, ma questi sono prevalentemente concentrati nell’Eurozona. Alla base di questo orientamento, ci sono le consuete difficoltà che si sperimentano con i mercati lontani dal punto di vista logistico, culturale e istituzionale. Dall’analisi i fattori problematici risultano essere principalmente cinque: la difficoltà a competere con gli operatori locali; la difficoltà a competere con le altre imprese esportatrici; la mancanza di capitali per l’espansione; il peso degli investimenti necessari per accedere ai nuovi mercati; la complessità delle regolamentazioni locali. Alla luce di queste difficoltà, le modalità d’entrata in un nuovo mercato sono sostanzialmente tre: strategie di esportazione, strategie di collaborazione e strategie di investimento diretto. “La scelta della modalità d’ingresso – dice la ricerca – dipende principalmente dal grado di attrattività del paese di destinazione, dal rischio percepito del nuovo mercato, dalla distanza culturale e psicologica con il paese target e dalla quantità di risorse che l’azienda intende investire”. Le medie imprese italiane hanno optato per una internazionalizzazione abbastanza solida, che passa attraverso: gli accordi commerciali solo per esportazioni (50%); le joint venture di minoranza con partner locali (42%); le licenze e i franchising (31%); le joint venture di maggioranza con partner locali (30%). Il quadro delle opzioni cambia marginalmente se si considerano le imprese che non sono ancora presenti all’estero, ma che hanno pianificato di farlo. In questo caso, le opzioni preferite sono: accordi commerciali solo per esportazioni (34%); joint venture o alleanze di maggioranza o di minoranza con partner globali (28%); joint venture o alleanze di maggioranza o di minoranza con partner locali (24%); licenze e franchising (23%). Infine, una nota che riguarda le strategie organizzative delle imprese. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da politiche di re-shoring, ovvero di rilocalizzazione nei paesi di origine di attività precedentemente spostate in paesi stranieri, per ragioni di competitività o strategiche. Su questo fronte, la ricerca indica che il fenomeno è tutt’altro che stabile. Dal 2014 al 2015, infatti, le intenzioni di riportare le attività in patria sono passate dal 39% al 35% per le attività facilmente “spostabili” e dal 31% al 28% per l’intero mercato. Quindi, il trend non è ancora assestato. (fonte: Euractiv.it)